GIOVANNI TRUNCELLITO DOLCE E CALMO - click to enlarge
testo di

Antonio Valentini






SEGNO E LIMINARITA' NELL'OPERA DI

GIOVANNI TRUNCELLITO

Pittura di trasfigurata pienezza, quella offerta da Giovanni Truncellito : pittura materica di iridescenze cangianti che nulla attende e che nulla chiede al conforto e alle illusioni del Logos. Pittura di estatica flagranza, certo, per dirla con le parole di Cesare Brandi. Ma anche pittura dell'estasi, che rilegge e rielabora il mito, facendo di quest'ultimo l'occasione esemplare di un improvviso disvelamento. Una ri-"velazione" che cede allo stupore dello sguardo e che si lascia riassorbire dal flusso del tempo. Oltre la storia, e, insieme, al fondo della temporalità storica, l'opera di Giovanni Truncellito scopre, nelle forme poliedriche del racconto mitico e nella sapiente evocazione di immagini archetipiche sedimentate nell'inconscio, il luogo misterioso e sospeso di una iniziazione infinita. Il luogo di un'epifania che è anche formazione, educazione consapevole al gusto e alla contemplazione del Bello. Epifania che alimenta evidenze ulteriori e che assume la concreta pregnanza delle cose e dei volti come simbolo intransitivo e assoluto di qualcosa che è, insieme, presente e assente. Vale a dire : presente proprio nella sua assenza immemoriale. Presente nel gioco metamorfico delle figure che, come fossero "personae" di un dramma liminare e intermittente, appaiono per un istante e poi dileguano, essendo affidate - già da sempre - al gesto del pittore che ha il compito di trattenere quell'attimo breve eppure interminabile. Perché quell'istante ci appartiene e lo sguardo dell'autore, volgendosi all'originaria, fontale pienezza dell'Essere, di quel repentino schiudersi e apparire non è più solo demiurgo e artefice, ma, davvero, poeta e testimone. Aedo di una presenza oscura. Testimone di un "comporre" sempre e di nuovo rinnovato. "Soglia d'amore", dunque, è la pittura in quanto tale. Non più o non solo un'opera determinata e singolare, ma la sintesi architettonica - o, forse, l'anticipazione abbreviata - di ogni produzione artistica. E, quindi, la cifra di uno stile preciso, l'emblema - vorrei dire, l'icona - di un "fare" tipizzato e, per questo, inconfondibile. "Soglia d'amore" che dice l'ineluttabile finitezza del nostro sussistere terreno, la costitutiva liminarità di ogni azione, di ogni gesto, di ogni segno che sappia offrire se stesso - in modo perspicuo - non solo alla nostra retina, ma soprattutto al nostro "sentire". E la pittura di Truncellito vuole essere proprio questo : segno che trascende se stesso e che, al fondo del suo mostrarsi, di colpo, evoca qualcosa che è altro da sé e che, nel suo stesso presentificarsi, di fatto, viene meno e dilegua. "Il belcanto", forse. Immagine di una realtà indeterminata e instabile. Una realtà che emerge e che, inspiegabilmente, sta, tra sonno e veglia, tra stupore e incanto. Come le favole. Come il mito : icona e simbolo di ogni possibile narratività. "Estasi", allora evoca e trasfigura questa volontà di adesione al limite che è anche volontà di trasvalutazione del mondo. Ovvero : la capacità di accettare il nostro incerto sussistere e consistere, tra luce e ombra, tra segno e designato, tra immagine e rappresentazione. Non dividere il "si" dal "no". Non deformare quella costitutiva "insecuritas" che fa uomo l'uomo : è questo il compito, etico e, insieme estetico, che l'opera e la ricerca espressiva di Giovanni Truncellito assumono e manifestano. Un limite che l'autore sa cogliere, di volta in volta, con sorprendente puntualità e rigore. Opera perspicua, dunque. Carica di una modularità architettonica che non rinuncia all'euritmia, anche nella deformazione dei caratteri e dei tratti. Anche nella dolente pietrificazione delle forme e dei gesti. Un'opera - quella espressa da Truncellito - che sente e che rende plastico il fondo delle cose. Ovvero : l'orizzonte opaco del mito, che precede e vivifica ogni scrittura, ogni costruzione letteraria. Per restituire voce al silenzio originario, alla parola monosillabica e geroglifica che è prima e al di là di ogni schema sintattico. Immagine essenziale del mito, allora, non può non essere - per Truncellito - Medea. Medea che non "ci" guarda. Medea che appare in sé : rivolta e - come l'Angelus Novus di Klee - ritorta verso l'immemoriale profondità di un passato che fa tutt'uno con l'oblio. Medea che si sottrae, sempre. Come Dioniso, nella Nascita della tragedia di Nietzsche. Medea che ha in sé la trasparenza e l'opacità : la densità libidica e pulsionale del rosso e l'oscura, magmatica pienezza del nero. Una figura che non è più immagine denotativa, perché - esasperando la strutturale autoriflessività che è propria di ogni immagine - rinvia solo a se stessa. Un rimando che non può essere giustificato in termini logico-razionali, se è vero che trae la sua forza dalla capacità di tenere insieme, paradossalmente, la sapienza profetica del mito e le contraddizioni irrisolte della modernità. Strappata al mito - cui, tuttavia, appartiene - Medea è attraversata da una differenza imponderabile che la divide dall'interno e che la rende estranea a se stessa. Non più modello universale, dunque, ma figura incerta e s-figurata che il gesto costruttivo del pittore re-inventa e ri-definisce, cogliendo - in quella concretezza opaca - qualcosa che, pur offrendosi nel visibile, è altro dal visibile. Medea e Maria Callas, sotto questo profilo, coincidono. Perché rimandano alla stessa intraducibile profondità, portandola sulla scena ambivalente della rappresentazione e del contemporaneo. Medea come Maria, Maria che ripete, nel contemporaneo, l'ambiguità di Medea. L'una presuppone l'altra, in una stratificazione discontinua che intreccia e confonde i piani temporali : il mito e la storia, il passato e il presente, il divino e l'umano. Attualità di un presente che non è se non ripetizione eterna e incessante attualizzazione del passato. E, quindi : attualità di un sentire che è, nello stesso tempo, prefigurazione del futuro. Il "già" che anticipa ciò che non è ancora. Ciò che è di là da venire. Maria, hic et nunc. Medea, ubique et semper. Lo sguardo del pittore le rende inscindibili. E il teatro della rappresentazione, "tras-figurandone" la presenza, le unisce e le mette in scena.

Antonio Valentini


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